Arceri e Balestrieri

ARCIERI E BALESTRIERI NELLA MARCHIA MEDIEVALE: NOTE PRELIMINARI
UMBERTO MOSCATELLI*

In uno studio di qualche anno fa Aldo Settia rimarcava lo scarso interesse del mondo scientifico per gli studi sull’esercito medievale[1]. Rispetto al quadro descritto da Settia le Marche non rappresentano certo una eccezione: non esiste infatti una tradizione di studi sull’argomento in generale e men che meno sul ruolo svolto dai corpi specializzati di tiratori, sebbene le cronache e – soprattutto – la documentazione archivistica non manchino certo di segnalarne la presenza in tutto l’arco di tempo compreso tra il XIII e il XVI sec. È tuttavia possibile leggere una serie di riferimenti occasionali e incompleti disseminati un po’ ovunque nella copiosa ma disordinata, eterogenea e non sempre affidabile letteratura storica locale, cui naturalmente vanno aggiunte le notizie desumibili dalle cronache cittadine, raramente attente però ai dettagli che più ci interesserebbero[2]. Quanto alla letteratura scientifica, vi cercheremmo invano contributi alla trattazione della materia, cosa che non deve stupirci dal momento che nella regione non si è mai riscontrato un reale interesse per le tematiche dell’archeologia medievale, sia da parte degli ambienti accademici sia da parte della competente soprintendenza. La ricerca si presenta quindi estremamente complessa perché, a parte l’apporto offerto dall’iconografia, è necessario attingere ad una documentazione d’archivio incredibilmente vasta e non sempre facilmente consultabile in quanto conservata in archivi locali a volte di difficile accesso.
Quelle che presento qui pertanto sono delle valutazioni preliminari maturate nel corso di una prima ricognizione generale: la ricerca, iniziata da poco, ha già posto in evidenza alcune problematiche di notevole interesse per una cui attendibile e documentata disamina occorrerà tuttavia portare a termine lo spoglio dei dati riferibili ad alcune aree campione.
Un primo ed essenziale aspetto è ovviamente rappresentato da una valutazione diacronica del ruolo svolto dai tiratori nelle milizie medievali della Marchia; ad una lettura di maggior dettaglio poi interessa ovviamente comprendere il peso che - rispettivamente - i corpi di arcieri e di balestrieri hanno avuto all’interno dell’esercito nelle diverse epoche nonché le modalità di reclutamento. Ovviamente tali problematiche (soprattutto la seconda, meno chiara) vanno inquadrate nel panorama nazionale. A tale proposito si ricorderà che Aldo Settia, nei suoi lavori sull’Italia settentrionale[3], ha già messo in evidenza il crescente ruolo della balestra già a partire dalla seconda metà del XIII sec, cui si accompagnerebbe un corrispondente e progressivo declino dell’arco come arma da guerra. La diversa fortuna delle due armi, testimoniata dal fatto che gli arcieri a un certo punto sembrano non venir più reclutati né compaiono nelle cernite pervenute e nel resto della documentazione, sarebbe da ricollegarsi essenzialmente alla maggiore efficacia che la balestra avrebbe, rispetto all’arco, in termini di potenza e precisione. Premesso che, comunque, questa evoluzione si dovette attuare in modi e tempi diversi a seconda delle diverse situazioni locali[4], va detto che la questione andrebbe posta in altri termini. Lasciando da parte la ben nota questione della maggiore frequenza di tiro degli arcieri rispetto ai balestrieri, ci sono alcuni dettagli tecnici da tener presente. E’ vero che la balestra consentiva di armare flettenti di grande potenza di carico con uno sforzo inferiore rispetto a quello richiesto da un arco, ma è anche vero che l’escursione della corda di una balestra da campo era abbastanza ridotta, con l’inevitabile ricaduta sulla velocità di uscita del proiettile. Com’è noto, gli elementi che nell’arco concorrono a determinare la capacità di penetrazione di una freccia sono molteplici, ma tra questi l’allungo (l’ampiezza dell’escursione della corda, appunto) è uno di quelli fondamentali: non a caso, a parità di carico, la potenza di un arco aumenta di pari passo con l’estendersi dell’allungo. La straordinaria potenza delle balestre da postazione (le balestre grosse) è data non solo e non tanto dalla soverchiante potenza dei flettenti ma anche dalla maggiore escursione della corda dovuta all’ampiezza dell’arco fissato al teniere. D’altro canto le punte di frecce da arco restituite da contesti di scavo riferibili al XIII e XIV secolo raggiungono pesi rilevanti, fino a 35-38 g; poiché punte di questo genere, per ovvie ragioni balistiche, non possono essere montate su aste di legno troppo leggere, ne deriva che il peso complessivo delle frecce doveva essere ragguardevole e che pertanto gli archi utilizzati dovevano necessariamente essere provvisti di adeguata potenza. Dunque l’effetto combinato della potenza dei flettenti, dell’ampiezza dell’allungo e infine della massa delle frecce conferivano a queste ultime una notevole capacità di penetrazione, non troppo distante da quella dei proiettili scagliati da una balestra da campo e comunque non così distante quanto comunemente si tende a ritenere. E’ invece vero che è molto più difficile addestrare un buon arciere piuttosto che un buon balestriere: l’arco infatti, a differenza della balestra, non dispone di meccanismi di mira e inoltre costringe il tiratore ad uno sforzo muscolare continuo durante la fase dell’inquadramento del bersaglio.
Ciò premesso, cercherò ora di offrire un quadro generale della situazione per l’area da me presa in esame. Per quanto concerne l’uso militare delle due armi si riscontra, nella documentazione archivistica e nelle cronache pervenute, una soverchiante presenza della balestra, mentre le menzioni dell’arco a scopo militare sono rarissime. Tra queste esiste ad esempio un documento della fine del XII secolo contenente una denuncia dei consoli di Montecchio (oggi Treia) contro Grimaldo e i suoi nipoti, colpevole di devastazioni e uccisioni nel territorio della città. I Consoli di Montecchio furono molto pignoli nel descrivere i dettagli delle malefatte di Grimaldo, compresi quelli concernenti gli effettivi utilizzati. Il testo riferisce del lancio di sagittae all’interno del castrum Vallis Campanae nonché, in un’altra occasione, del ferimento grave di un altro castellano cum sagitta. Nella medesima circostanza gli attacchi avevano fatto seguito al reclutamento di cento armati tra milites, pedites e sagittarii[5]. Considerata la cronologia del documento, nei sagittarii va qui senz’altro riconosciuto un gruppo di arcieri; più avanti nel tempo il termine assume un significato più incerto e può venire usato anche per indicare tiratori di balestra, come si evince in più casi dalla lettura degli statuti cittadini.
Pochi anni più tardi, esattamente nel 1215, un dominus Alberto di Rinaldo di Fabriano appare a capo di un proprio contingente di milites et arcatores, con il quale partecipa a un conflitto tra Assisi e Perugia[6]
Circa un secolo dopo, di nuovo a Montecchio, una pergamena del 1263 riporta un elenco di un centinaio di balestrieri, una novantina dei quali in possesso di una balestra ad unam staffam, distribuiti tra quattro diversi quartieri: 13 nel quartiere dell’Onglavina, 28 in quello dell’Elce, 23 in quello di Sasso e infine 18 in quello di San Nicola[7]. Non vengono menzionati arcieri, come pure in una successiva cernita del 1307, conosciuta agli studiosi locali ma riportata in modo impreciso per quanto concerne il computo degli effettivi; qui ad essere menzionati sono balistarii e pauesarii, ancora una volta distribuiti per quartieri. Questa volta i balestrieri sono solo 27, mentre i pavesari assommano a 98.
Un altro elenco di armati, datato al 1328 è reperibile negli archivi di un comune della fascia interna delle Marche, Esanatoglia, i cui statuti, datati al 1324, furono pubblicati da Gino Luzzatto nel 1909[8]. Nel capitolo introduttivo Gino Luzzatto menzionò una impositio armorum, rilegata assieme agli statuti, senza però pubblicarla. Da quella lista, da me verificata presso l’archivio del Comune di Esanatoglia, si ricavano i nomi di un centinaio di  empanzerati, 83 balestrieri e 60 pavesari.
Per altre città marchigiane la situazione parrebbe analoga; a titolo di esempio si possono ricordare i dati trascritti nel Codex Diplomaticus Dominii temporalis Sanctae Sedis, dove nel 1330 tra le expense pro stipendiariis et custodibus castrorum vengono ricordati un conestabile balisteriorum a Monte Granaro, e 51 famuli balisterii ad Ascoli[9]; oppure possono essere richiamati i documenti riportati da Monaldo Leopardi per Recanati[10], quelli recentemente raccolti da Philippe Jansen nella cospicua monografia su Macerata pubblicata dall’École Française[11], o ancora quelli contenuti nelle cronache raccolte da Gaetano De Minicis per il fermano[12] o da Pietro Ferranti per Amandola[13] o altri ancora.
In buona sostanza, quello che al momento sembra emergere nell’arco di tempo compreso tra la seconda metà del XIII e il XV sec. è una cospicua presenza di contingenti di balestrieri, assieme ai quali vengono poi menzionati gruppi più o meno numerosi di pavesari. A parte il caso di Fabriano, lo spoglio finora compiuto non ha evidenziato la presenza di corpi di arcieri, il che ci riporta ovviamente al problema precedentemente accennato e cioè quello relativo al processo di progressivo abbandono dell’arco a vantaggio della balestra. Tuttavia sembra poco credibile che gli arcieri non trovassero impiego in guerra; anche prescindendo dalle considerazioni strettamente tecniche già espresse circa l’efficacia dell’arco come arma da guerra, c’è da osservare che la documentazione statutaria attesta la presenza dell’arco su tutto il territorio regionale per un lungo periodo di tempo compreso tra gli inizi del XIV secolo e la metà del Cinquecento. Tra i centri i cui statuti contengono, secondo una nota prassi, norme restrittive sull’uso dell’arco e di altre armi troviamo Osimo (1308-1342)[14], Montabboddo (oggi Ostra, 1366), Camporotondo di Fiastrone[15], Ascoli Piceno (1377), Fano (1450), Staffolo (1550)[16], Civitanova (1567).
Gli statuti di Osimo, pervenuti per gli anni 1308, 1314 e 1342, sono quelli che rivestono il maggior interesse. Arco e balestra vengono menzionati  più volte in ordine ai consueti divieti:
nullus per civitatem vel burga deferat arcum vel balistam tesos cum quadrellis vel sagiptis (divieto esteso anche ad arco e balestra a pallottole)[17]
La norma, già presente nel 1308, viene ribadita con alcune varianti nel 1314 e nel 1342. Ma l’aspetto più interessante è quello che emerge dalla lettura delle rubriche concernenti il divieto espresso ai bubulci e ai custodes bestiarum di portare armi da offesa, divieto che compare nel 1308 e nel 1314:
Statuimus quod nullus bubulcus seu custos bestiarum audeat vel presumat portare aliquam lanceam, tellum, spatam, spuntonem, cultellum acutum, arcum cum sagiptis, balistam cum quaderellis, mannariam francescam, runconem nec aliqua alia arma ad offendendum, preter strobolarium, de die nec de nocte, et neque pecorarii possint portare nisi unum bastonem, custodendo boves vel bestias[18]
L’interesse di questa norma sta nel fatto che essa rappresenta una testimonianza esplicita di una significativa diffusione dell’arco tra gli strati poveri della popolazione, tanto da giustificare l’inserimento di un divieto ad hoc tra le altre disposizioni. Ora, poiché in altre rubriche dello statuto si fa riferimento alle balestre del comune (e non agli archi) si può ragionevolmente supporre che anche qui come in altri comuni italiani il comune provvedesse in proprio ad acquistare le costose balestre e a mantenere una propria armeria per le milizie cittadine, mentre il possesso degli archi, probabilmente in legno, era invece alla portata di tutti. Alle stesse conclusioni potrebbe portare anche un documento della fine del 1392, contenente un inventario delle armi di proprietà del comune di Montesanto. Nell’inventario compaiono, oltre a 17 bombarde, 26 balestre a staffa di cui 5 “a stile genovese”, 3 balestre a leva, 3 a girella, 44 pavesi di varie dimensioni, 4 cervelliere, una cassetta di triboli in ferro, 10 crocchi, 19 fibbie per le cinture delle balestre e più di 400 verrettoni di varie fogge[19].
Tornando al caso di Osimo, a completare il quadro vengono poi altre due rubriche che, pur non riferendosi direttamente alle tattiche militari che venivano messe in atto in occasione dei conflitti con i comuni vicini, ne lasciano tuttavia intravedere alcuni aspetti. La rubrica XLI degli statuti del 1308 così stabilisce:
si quis guerram vel conflictum habuerit cum aliquo infra civitatem et burga et io eo conflictu alquis balistaret vel sagiptaret vel iactare burdones, spetos vel lanceas, dominus guerre solvat comuni L libras ecc..
Norme simili sono poi contenute nella rubrica seguente e concernono il divieto, generico e quindi verosimilmente da riferire ad arco e balestra, di lanciare frecce dalle torri se non per propria difesa. In caso di violazione della norma la torre sarebbe stata abbattuta.
Riassumendo, ciò che sembra di capire è che nell’area di Osimo in occasione di conflitti militari fossero usati sia l’arco che la balestra; i riferimenti – qui come altrove, si potrebbe azzardare - a disposizioni concernenti la manutenzione di un’armeria comunale nella quale non figurano archi si potrebbero spiegare con il fatto che in caso di guerra chi possedeva un arco era tenuto a presentarsi con la propria dotazione personale[20]. 
Anche la situazione di Fano, molto più tarda (1450) va considerata con attenzione perché in mezzo alle regole che disciplinavano un torneo di tiro con la balestra compare anche una norma relativa «alli balestranti con l’arco», a testimonianza del fatto che, almeno in quell’area gli arcieri probabilmente rivestivano ancora un ruolo significativo nell’esercito: è noto infatti che lo scopo principale dei tornei era quello di fare in modo che i corpi di tiratori si tenessero in esercizio[21].
Quelle appena ricordate non sono le sole testimonianze che ci devono indurre a riflettere sul significato da attribuire alla mancata menzione degli arcieri nella documentazione relativa agli eserciti dei vari comuni. Nella Miscellanea Vogel, conservata nella biblioteca Benedettucci di Recanati, si fa riferimento a una supplica presentata al Consiglio di Montesanto (oggi Potenza Picena) il 5 aprile 1441 da parte di giovani che si lamentavano di alcuni divieti concernenti il gioco della palla. Argomento della protesta era anche il fatto che invece i giochi con la balestra e con l’arco, benché si fossero dimostrati pericolosi, non erano proibiti. Di notevole interesse è poi quanto viene detto a proposito del fatto che i giovani non amavano «portare l’archo in mano come ad schiavi et albanisi»[22].
Altre due testimonianze quasi coeve si riferiscono a Ussita e Castelsantangelo sul Nera, zone interne del maceratese. A Ussita le norme del 1462 relative al tiro con la balestra sanciscono contestualmente il divieto di tirare con l’arco, evidentemente allo scopo di contrastare una pratica piuttosto diffusa e in controtendenza rispetto al largo impiego militare della balestra[23]. Nella vicina Castelsantangelo sul Nera un affresco degli inizi del Cinquecento collocato nella chiesa di S.Martino dei Gualdesi e dedicato all’osservanza del precetto di santificazione delle feste mostra, accanto alla figura del Cristo, le insegne degli artigiani. In mezzo a queste figura chiaramente quella dei costruttori d’arco, a riprova del fatto che all’inizio del XVI secolo l’arco non era caduto in disuso, anche se certamente la balestra risultava ormai essere l’arma da tiro più diffusa, come comprovato da numerose testimonianze. Tra queste, una delle più interessanti è costituita da un documento dal Registro delle ferrarecce sbarcate al porto di Recanati (1508), con il quale chiudo questa prima raccolta di dati sull’arco e la balestra nelle Marche medioevali. Dal Registro risulta che a più riprese furono sbarcate balestre, componenti per la costruzione di balestre di acciaio o di legno e frecce; tutto il materiale proveniva dal Veneto. In particolare, il 3 ottobre 1508 la barca di tal Bartolo Zila da Chioggia portò 80 balestre fornite, 50 archi di legno (si intende archi per le balestre), 70 archi di acciaio, 15 leve e 2000 frecce[24].

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[1] Si vedano in proposito i lavori di A. A. Settia, con particolare riferimento a: A.A.SETTIA, Comuni in Guerra. Armi ed eserciti nell’Italia delle città, Bologna, CLUEB, 1993; ID., Rapine, assedi, battaglie. La guerra nel Medioevo, Bari, Laterza, 2002
[2] Ad esempio: A. SALVI (a cura di), Cronaca Ascolana dal 1345 al 1523, Ascoli Piceno, Giannino e Giuseppe Gagliardi Editori, 1993 (edizione critica della cronaca contenuta nel codice Ottoboniano latino 1980 della Biblioteca Apostolica Vaticana).
[3] SETTIA, Comuni in guerra cit., specialmente a pp. 140-144.
[4] Si vedano ad esempio i frequenti riferimenti alla presenza di arcieri montati nella Savoia quattrocentesca: A. BARBERO, Il Ducato di Savoia. Amministrazione e corte di uno stato franco-italiano, Bari, Laterza, 2002
[5] Parte del testo del documento è riportata in U.MOSCATELLI, Trea, Firenze, Olschki Editore, 1988, p. 30.
[6] Notizia riportata in F.PIRANI, Fabriano in età comunale. Nascita e affermazione di una città manifatturiera, Firenze, Nardini Editore, 2003, p. 196
[7] Archivio dell’Accademia Georgica di Treia, pergamena n. 259.
[8] G. LUZZATTO (a cura di), Gli Statuti del Comune di S. Anatolia del 1324 e un frammento degli statuti del Comune di Matelica del sec. XIV (1358), Ancona, Deputazione di Storia Patria, 1909, p. XXI.
[9] A.THEINER, Codex Diplomaticus Dominii Temporalis Sanctae Sedis, Roma, Città del Vaticano 1861, p. 586.
[10] M. LEOPARDI, Annali di Recanati, Loreto e Portorecanati, Recanati, Centro Nazionale di Studi Leopardiani, 1993.
[11] P. JANSEN, Macerata aux XIV et XV siècles. Démographie et société dans les Marches à la fin du Moyen Âge, Collection de l’École Française de Rome – 279, Rome 2001
[12] G. DE MINICIS, Cronache della città di Fermo, Firenze, Cellini, 1870.
[13] P. FERRANTI, Memorie storiche della città di Amandola, Ripatransone, Maroni Editore, 1985.
[14] D.CECCHI (a cura di), Il codice esimano degli statuti del secolo XIV, Osimo, Fondazione Don Carlo, 1991. D’ora in poi sarà citato come S.O.
[15] D. CECCHI (a cura di), Statuta Campirotundi (1322-1366), Milano, Giuffré,
[16] D.Cecchi, Gli statuti del comune di Staffolo (metà secolo XVI), Staffolo 1998, Liber I, rubr. VIII, p. 165 (obblighi del Podestà) e Liber III de maleficiis, rubr. XLVII, p. 290: pena di 20 libbre denariorum si quis dolose balistaverit sive sagiptaverit contra aliquam personam, licet non percusserit.
[17] S.O., Liber III, rubr. XXXVIIII, p. 238 (1308)
[18] Ibid., rubr. CCCXXXVI, p. 341 (1308).
[19] Il documento è riportato anche in V. GALIÈ, Da Potentia a Monte Santo a Potenza Picena, Macerata 1992, p.137.
[20] Si veda ad esempio la prescrizione degli Statuti di Treviso, nei quali si stabilisce che ogni contadino era tenuto a  habere unum bonum arcum cum XXV pillottis. Cfr. A.A.Settia, Comuni in guerra, op. cit., p. 179, nota 123.
[21] Sui tornei di Fano cfr. R. PACIARONI, Il gioco della balestra a Sanseverino e in altre città delle Marche(secc. XIV-XVII), in “Studi Maceratesi” 31 (1995), pp. 469-473 e part. 471-472.
[22] Humilmente se supplica et subiectiva mente se espone per parte del li vostri fedelissimi servitori università et juvini de Montesancto, li quali se delectano jocare a la palla, dice et narra che cum ciò sia cosa che per le V.M.S. sia stato facto uno ordene che non se possa jocare ad nisciuno joco, salvo che con la balestra e con lu archo et la conditione de alcuni non glie da volere portare l’archo in mano come ad schiavi et ad albanisi et anche considerato è cosa pericolosa come a le S.V. è noto sono occorsi ja più periculi. Cfr. V. GALIÈ, Da Potentia a Monte Santo a Potenza Picena, Macerata 1992, p.153.
[23] PACIARONI, art. cit., p. 493
[24] Il documento è riportato in R. GARBUGLIA, Il porto e la fiera di Recanati nei secoli XV e e XVI, in “Studi Maceratesi” IX (1975), pp. 59-62.

 

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